San Marco Polo

“Ogni esistenza è una lettera imbucata anonimamente; la mia reca tre timbri: Parigi, Londra, Venezia; la sorte mi ci stabilì, spesso a mia insaputa, ma non certo alla leggera..
Venezia riassume nel suo spazio forzato il mio tempo sulla terra, posto anch’esso in mezzo al vuoto, fra le acque fetali e quelle dello Stige.
Non sento più l’incantesimo di nessun luogo del pianeta, tranne che di Venezia, di San Marco, moschea dal pavimento in declivio e rigonfio, come tanti tappeti da preghiera giustapposti.
San Marco io la conosco da sempre, grazie ad un acquerello appeso al muro della mia camera di bambino, un grande lavis dipinto da mio padre, intorno al 1880 – bistro, seppia, inchiostro di china – di un romanticismo tardivo, in cui il rosso delle lampade d’altare buca le volte d’ombra dorata, dove il tramonto viene a rischiarare un pulpito ricoperto d’un turbante.
Venezia traccia i miei giorni come i pali dalla cima incatramata delimitano la sua laguna; è solo un punto di vista, fra gli altri; Venezia non è tutta la mia vita, ma alcuni frammenti, senza legame tra loro; le rughe dell’acqua si cancellano, non le mie.
Rimango insensibile al ridicolo di scrivere su Venezia, nell’ora in cui persino il primato di Londra e di Parigi non è più che un ricordo, in cui i centri nervosi del mondo sono luoghi selvaggi, dove l’Europa non si fa più sentire, dove soltanto l’Asia conta; sistemata alle sue porte, Venezia lo aveva capito, penetrando fino in Cina.
San Marco dovrebbe essere devoto a Marco Polo, e non il contrario.”

(P. Morand)

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